L’Amazzonia brucia. Questa notizia ci spaventa. È come se la terra perdesse un polmone. Perdiamo anche un luogo dell’immaginazione, un altrove, una parte del pianeta in cui ancora si può pensare di vivere un’esperienza avventurosa, di spaesamento, di capire qualcosa che ancora non abbiamo capito.
Abbiamo capito così poco che ora l’Amazzonia brucia e noi ci sorprendiamo, gridiamo al disastro.
Correre ai ripari. Ce lo dicono da tempo i profeti inascoltati, ce lo dicono ora nuovi profeti che speriamo ricevano l’attenzione che meritano e non finiscano stritolati dalla ruota mediatica che tutto macina.
Conoscevo un geologo che diceva che il disastro ambientale non esiste, in effetti forse questo cominciamo a capirlo, il vero disastro ambientale è l’arroganza della nostra specie.
Davanti alle immagini dell’incendio, davanti alle immagini dello scioglimento dei ghiacci mi immalinconisco pensando ai piccoli gesti quotidiani che in tanti abbiamo imparato e stiamo imparando: fare sempre meglio la differenziata, riciclare, riutilizzare, ridurre gli sprechi, raccogliere anche i rifiuti altrui sulle spiagge e nei boschi, bere acqua da una borraccia, ridurre l’utilizzo dell’automobile allo stretto necessario o scegliere il car sharing, andare a piedi o in bicicletta, scegliere il chilometro zero, il detersivo biologico, lo shampoo solido, non mangiare carne. L’elenco può diventare lungo ma se l’Amazzonia brucia, se i ghiacci si sciolgono, se il mare è pieno di plastica, se la portata del disastro è questa, le nostre scelte quotidiane rischiano di apparirci d’improvviso come una lotta contro i mulini a vento.
Invece è adesso che dobbiamo perseverare, migliorare. E se la natura si è ripresa il territorio devastato di Chernobyl vuol dire che vince sempre e che dobbiamo studiarla di più, comprenderla di più, pensarla come un’alleata e non come un’entità da soggiogare e piegare alla nostra volontà a tutti i costi. Perderemo qualcosa di quello che credevamo di aver conquistato ma guadagneremo qualcosa di nuovo.
Io ho un giardino.
Da bambina avevo un giardino, nelle sere d’estate quando faceva quasi buio mio padre bagnava le piante, mi piaceva stare con lui, mi raccontava della bella di notte che di giorno dorme e di notte offre i suoi fiori all’oscurità, fantasticava sulla magia dei colori dell’ortensia che si nutrono di rosa e di azzurro. Insieme abbiamo piantato un piccolo eucalipto che abbiamo guardato crescere rapidamente, che nelle giornate di vento si muoveva leggero, che aveva foglie profumate. Chi ha abitato quella casa dopo di noi ha tagliato l’eucalipto con la scusa che fosse un pericolo per le fondamenta- la scusa utilizzata da tutti quelli che pretendono di eliminare alberi dai giardini- ha eliminato la ghiaia per una comoda piastrellatura, ha arredato con la plastica di moda alla fine degli anni Sessanta.
C’è stato un periodo in cui per qualche motivo certi pomeriggi andavamo a casa di una signora, forse una sarta ma non lo ricordo perché ero molto piccola, è uno dei ricordi più lontani nel tempo. Prima della fine della visita la padrona di casa mi prendeva per mano e uscivamo in giardino, con una forbice tagliava una rosa, un’ortensia, un ramo verde, steli con fiori di cui ricordo solo i colori, componeva un mazzo per mia madre. Le rose scendevano a cascata da un arco sopra le nostre teste, passavamo sotto una galleria di rose rampicanti e uva fragola.
Ho sempre cercato case con uno spazio esterno, sono passata da terrazzi grandi a terrazzi più piccoli, a un terrazzino minuscolo. Lungo la strada ho lasciato piante a nuovi abitanti, ho regalato piante agli amici. Di casa in casa ho sempre portato con me un ulivo in vaso, regalo di mio figlio Andrea per un compleanno. Finalmente ho trovato un giardino. Un giardino con un ciliegio, un nespolo, una pianta di uva fragola, una pavimentazione di pietra a spacco e una parte con la terra, quella terra da riporto tipica dei giardini di città. Si scava ed escono pietre, pezzi di marmo e di piastrelle, ferri arrugginiti, piccoli contenitori di plastica, tappi di bottiglia. Un disastro.
Ho seminato per tre volte l’erba, senza successo. Devo confessarvi che oltre a una numerosa famiglia e a un ulivo in vaso, come me ha traslocato anche un cane che ha trascorso il suo ultimo scorcio di vita godendosi il giardino e dopo quel cane ne sono arrivati altri, perfino un gatto che si è aggiunto alla banda di gatti del vicinato.
Impossibile far crescere l’erba a meno di interdire il giardino agli animali.
Impossibile piantare cespugli bassi se non difendendoli con robuste recinzioni. Così ho scelto gli alberi. E dopo aver letto i libri di Gilles Clement ho scelto di osservare i movimenti del giardino e assecondarli. Non ho l’erba ma in primavera ho belle chiazze di trifoglio con i fiorellini rosa, ho edera che non ho seminato io, una citronella, violette, margheritine che spuntano da un muro e una palma che non ho piantato io. Piccole cose. Piccole, grandi cose.
Ho cominciato con l’Amazzonia che brucia ma il discorso si fa lungo. Presto continuerò a raccontarvi del giardino imperfetto.
L’Amazzonia brucia. Lo so che ci sentiamo impotenti e un po’ ridicoli con i nostri piccoli gesti quotidiani ma perseveriamo. Piantate un albero se potete, adottate una pianta, curate un’aiuola, armatevi di bombe di semi.